La città di domani? Sicura e senza confini

Ersilia Vaudo Scarpetta, Chief Diversity Officer dell’Agenzia Spaziale Europea, racconta l’inclusione: un risultato virtuoso di precise scelte strategiche e progettuali

23/03/2022

“Viviamo in un mondo ancora caratterizzato dalla presenza di moltissime barriere: alcune visibili e altre invisibili, ma tutte, inevitabilmente, creano delle disuguaglianze. Il Real Estate è oggi tra le discipline che hanno la possibilità e il dovere di agire con decisione verso il loro superamento”.

Ersilia Vaudo Scarpetta, Chief Diversity Officer dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e Membro Indipendente del Comitato di Indirizzo del Fondo COIMA ESG City Impact

Ersilia Vaudo Scarpetta, Chief Diversity Officer
dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e
Membro Indipendente del Comitato di Indirizzo
del Fondo COIMA ESG City Impact

Partendo da questa riflessione, Ersilia Vaudo Scarpetta, Chief Diversity Officer dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e Membro Indipendente del Comitato di Indirizzo del Fondo COIMA ESG City Impact, offre un punto di vista nuovo in una chiacchierata in cui la sostenibilità incontra il cambiamento, e l’inclusione diventa risultato virtuoso di precise scelte strategiche e progettuali.

Sono molti i punti di contatto tra i temi sollevati dall’astrofisica italiana e le riflessioni che, negli ultimi anni, stanno animando anche il settore immobiliare e della progettazione urbanistica. “Viviamo in un’epoca in cui si fa un gran parlare di innovazione, dimenticando che la sua definizione è molto semplice. Innovare significa andare da 0, il tuo punto di partenza, a 1, il tuo punto di arrivo previsto. Innovare significa spostarsi, cambiare il proprio punto di vista sulle cose, sforzarsi di andare oltre quanto è stato fatto finora.”

Oggi la vera rivoluzione sta nel riuscire a vedere le cose in modo nuovo, superando la cosiddetta zona di comfort. “Quando un punto di vista si trasforma, una rivoluzione sta per cominciare. Il cambiamento è già in atto. E, se ci pensate, la cosa davvero interessante è che nell’anticipare un cambiamento si rischia anche il consenso, perché facendo qualcosa di nuovo si mettono in crisi le conoscenze, le abitudini e le credenze preesistenti. È così anche nel mondo della fisica: le grandi scoperte sono nate in una continua oscillazione tra la voglia di buttarsi e il ritorno nella nostra comfort zone”.

Questa separazione tra comfort zone e spazio dell’innovazione diventa facilmente una metafora applicabile al mondo contemporaneo e non solo alla ricerca scientifica: è tipico degli esseri umani individuare dei confini (nazionali, comunali, rionali, personali), la cui violazione diventa automaticamente un’invasione e che devono essere irrigiditi, irrobustiti e protetti, escludendo chi sta al di là di questo confine.

L’urbanistica ha molto da dare alle nuove politiche di inclusione: dove c’è un confine, c’è un’esclusione

L’urbanistica ha molto da dare alle nuove politiche
di inclusione: dove c’è un confine, c’è un’esclusione

Queste barriere e queste separazioni vanno superate: ritengo che l’urbanistica abbia molto da dare alle nuove politiche di inclusione, perché dove c’è un confine, c’è comunque un’esclusione e questo vale sia per le barriere visibili, come quelle architettoniche, sia per quelle invisibili, determinate ad esempio dai costi delle abitazioni in un quartiere piuttosto che in un altro, dal passaggio o meno di una linea di metropolitana e così via”.

Basti pensare che l’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ha condotto uno studio e dimostrato come ad ogni fermata della linea metropolitana Jubilee di Londra l’aspettativa di vita degli abitanti si riduceva di un anno, sottolineando come il contesto ambientale abbia un impatto considerevole sulla società. Prendendo in considerazione questo dato, emerge dunque con urgenza la necessità di effettuare investimenti immobiliari per la realizzazione e la valorizzazione di spazi inclusivi e di scambio per tutti i segmenti sociali, senza che esistano più distinzioni di nessun tipo all’interno dei centri urbani.

In questa prospettiva, è fondamentale rivedere la progettazione urbanistica e provare a stabilire nuove connessioni tra gli spazi, abolendo la classica divisione in zone e la distinzione tra centro e periferia. Un concetto già espresso da Renzo Piano che, nel nostro podcast “Nuove Radici” ci ha offerto una visione molto coerente del tessuto urbano italiano: una grande “città diffusa” in cui le evidenti separazioni tra capoluogo e comuni limitrofi e tra quartieri “a etichetta”, popolati da uffici e aziende o da locali per la movida, e quelli a carattere residenziale, devono necessariamente essere superate.

Ma un’urbanistica che abbia in sé una propensione naturale all’apertura e alla condivisione sarà possibile in futuro solo grazie al potenziamento di tutte le infrastrutture di cui si compongono un’economia e una società: “forse la mia è una deformazione professionale”, continua Vaudo Scarpetta, “ma di una cosa sono fermamente convinta: il Ministero delle Infrastrutture di domani dovrà tenere conto non solo di quelle terrestri, ma includere anche quelle digitali e spaziali. Quando questa integrazione sarà avvenuta, si potrà parlare di connessioni in modo molto più concreto”.

Il contributo che il lavoro sullo Spazio e sul Cosmo può dare alla vivibilità del nostro pianeta diventa così più tangibile di quanto si possa credere. “Ho scelto questa strada perché studiare lo spazio significa raccogliere competenze e informazioni che possono essere utilizzate per avere un impatto positivo sulle grandi sfide del pianeta, dalla povertà al climate change. Ciò che mi sta a cuore è che si inizi ad allontanarsi da una visione stereotipata dello spazio, fatta solo di conquiste tecnologiche, e si pensi anche in termini di ecosistema. Per fare un esempio, grazie al lavoro dell’ESA è possibile evidenziare in modo molto più evidente come le scelte legate all’urbanistica nelle città abbiano poi conseguenze sul clima”.

Un esempio ci viene dalla città di Rotterdam, che ha avviato un progetto per la valutazione della temperatura di superficie usando le immagini via satellite, grazie alle quali può tenere monitorati i diversi livelli di emissione dei vari quartieri: così il monitoring dallo spazio diventa un modo utile per progettare interventi mirati a favore dell’ambiente.

“Un altro aspetto che vorrei sottolineare è che la ridefinizione dei confini ha delle ripercussioni anche in materia di sostenibilità.Abbiamo parlato di molte barriere per così dire orizzontali, ma ve n’è un’altra, verticale, a cui siamo meno abituati a pensare: quella verso il cielo.
Se provassimo, in effetti, ad alzare per un attimo gli occhi e, ancora una volta, a cambiare prospettiva, ci renderemmo conto che l’inquinamento luminoso delle nostre città è esso stesso una limitazione alla nostra possibilità di guardare oltre al nostro contesto quotidiano.

Guardare il cielo, sottolinea l’astrofisica, “è anche un modo per relativizzare la nostra esistenza di fronte all’infinito del cielo stellato, e la spinta a un rinnovato impegno verso la conservazione della bellezza del nostro pianeta, un sassolino sperduto in un universo vasto e vuoto”.

Ecco allora che emerge un tema molto importante: e se la progettazione urbana tenesse conto anche dell’inquinamento luminoso generato e non solo di quello emissivo?

“La situazione è davvero preoccupante: oggi moltissimi bambini non riescono a vedere le stelle semplicemente affacciandosi dal balcone di casa e alzando gli occhi al cielo, a causa dell’uso smodato dell’illuminazione nei grandi centri urbani sviluppati”, dichiara l’astrofisica. “Per questo abbiamo dato vita a Il Cielo Itinerante, un’associazione che si pone il duplice obiettivo di offrire ai bambini nuovi immaginari e prospettive di futuro e di fare dell’Italia il Paese in cui più bambini hanno guardato il cielo nel corso di un anno, partendo dal presupposto che le materie STEM sono elementi essenziali per una società inclusiva”.

Un obiettivo, quello di appassionare i più giovani alle materie scientifiche, rivolto soprattutto alle ragazze, ancora in percentuale molto inferiore rispetto ai colleghi maschi. “Forse anche questa è una rivoluzione complessa ma necessaria per la nostra società”, precisa Vaudo Scarpetta, “e soprattutto possibile: il team de Il Cielo Itinerante è tutto al femminile e l’ESA ha ottenuto grandi risultati nel gender balance anche perché si è dimostrata capace di mostrare l’impatto delle sue ricerche sulla vita quotidiana di tutti, uomini e donne”.

Basti pensare che la terza persona ad andare nello spazio nel 1963 è stata una donna, Valentina Tereškova, a soli 26 anni: “l’Unione Sovietica aveva una politica legata al bilanciamento di genere abbastanza avanzata per quei tempi. Ci sono voluti altri due decenni perché avvenisse anche per un’astronauta occidentale, l’americana Sally Ride. Oggi, trent’anni dopo, siamo orgogliosi di poter affermare che nel corso dell’ultima selezione di astronaute all’ESA, il 39% delle candidate ha superato le prove con successo”.

Innovazione, sostenibilità e inclusione sono le tre direttrici nelle quali ricerca scientifica, progettazione urbanistica e Real Estate devono dialogare per rendere le nostre città più sicure, più inclusive e più accoglienti senza bisogno di rafforzare i propri confini ma, al contrario, creando spazi di incontro, di dialogo e di resilienza che possano contribuire alla mitigazione degli effetti del cambiamento climatico e delle grandi sfide sociali dei nostri tempi.

L’urbanistica ha molto da dare alle nuove politiche di inclusione, perché dove c’è un confine, c’è comunque un’esclusione e questo vale sia per le barriere visibili, come quelle architettoniche, sia per quelle invisibili, determinate ad esempio dai costi delle abitazioni in un quartiere piuttosto che dal passaggio di una linea di metropolitana

Mi sta a cuore che si inizi ad allontanarsi da una visione stereotipata dello spazio, fatta solo di conquiste tecnologiche, e si pensi anche in termini di ecosistema. Grazie al lavoro dell’ESA è possibile evidenziare in modo molto più evidente come le scelte legate all’urbanistica nelle città abbiano poi conseguenze sul clima

Abbiamo parlato di molte barriere per così dire orizzontali, ma ve n’è un’altra, verticale, a cui siamo meno abituati a pensare: quella verso il cielo. Se provassimo ad alzare per un attimo gli occhi e a cambiare prospettiva, ci renderemmo conto che l’inquinamento luminoso delle nostre città è esso stesso una limitazione alla nostra possibilità di guardare oltre al nostro contesto quotidiano